07-02-2017 ore 19:02 | Cultura - Crema in litteris
di Nicolò Premi

Crema in litteris. L’ira di Michelozzo contro “Merdolino da Crema”, asinaio dei Visconti

Gli italiani non sono soltanto “un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori”, come recita l’iscrizione del Palazzo della civiltà italiana a Roma. Se immaginassimo di avere la possibilità di completare la frase con almeno un’altra categoria, probabilmente dovremmo aggiungere quella dei burloni. A partire da Giovanni Boccaccio infatti sono parecchi gli scrittori italiani che hanno dedicato novelle e opere teatrali al tema della beffa, del motto di spirito e dell’aneddoto bizzarro, assurdo e stravagante. Tra questi un posto di rilievo va riconosciuto a Franco Sacchetti (1332/1334-1400), autore del Trecentonovelle, raccolta di brevi e semplici racconti tutta impostata su un’aneddotica giocosa tratta soprattutto dalla vita popolare e cittadina della sua epoca. Possiamo dire che gli episodi narrati nel Trecentonovelle rappresentano in compendio uno spaccato della civiltà italiana, borghese e popolare.

 

Frizzi, burle e amorazzi

Per aver rappresentato con il suo stile semplice – da “uomo discolo e grosso” quale egli si definiva – un mondo animato da “frizzi, burle, amorazzi, ipocrisie fratesche, aneddoti, pettegolezzi” (De Sanctis), Sacchetti è passato alla storia, secondo il giudizio del Settembrini, come «il più spontaneo degli scrittori italiani”. Una delle sue storie in particolare (ma forse sarebbe meglio considerarle vere e proprie barzellette) riguarda un personaggio cremasco. La novella CLII del Trecentonovelle narra la storia di un certo messer Giletto, cavaliere di Spagna, che un giorno mostrò a Bernabò Visconti, signore di Milano, uno strano asino che era in grado di fare alcune stramberie: si alzava sulle gambe posteriori facendo quasi un balletto, ragliava in modo strano e si comportava talvolta quasi come una persona.

 

Ben più aristocratici equini

Poiché Bernabò fu piacevolmente impressionato dalle bizzarrie dell’asino e avendo riso di gusto alla sua vista, Giletto decise di donare la bestia ai servi del signore perché recasse diletto alla corte – sarebbe stato in effetti sconveniente donare un asino direttamente al nobile Bernabò, cui si addicevano ben più aristocratici equini. A questa scena assistette di nascosto un gentiluomo fiorentino di nome Michelozzo che, visto il piacere provato da Bernabò alla vista di quell’asino, decise di tornare nella sua città per acquistare due asini e spedirli in dono al signore con l’intento di ingraziarselo. Prima di inviarli a Milano però li fece rivestire, come due veri palafreni, con preziosi drappi di porpora su cui fece cucire lo stemma dei Visconti e il suo. Sebbene tutti lo avessero sconsigliato di fare un dono così ridicolo e sconveniente a un signore, Michelozzo, un po’ per ignoranza, un po’ per piaggeria, mandò comunque le bestie in dono a Bernabò e questi, sentendosi ovviamente preso in giro, decise di rendere al fiorentino la pariglia.

 

Il castaldo della salmeria

È a questo punto della vicenda che compare un personaggio chiamato Bergamino da Crema, che Sacchetti definisce ironicamente “castaldo della salmeria del magnifico signore di Milano”, ma che era semplicemente un povero facchino, un asinaio al servizio dei Visconti “che tutte le some del signor conduceva”. Bernabò decise di inviare a Michelozzo una lettera firmata da Bergamino da Crema in cui quest’ultimo ringraziava il fiorentino per il dono fattogli e affermava di avere spogliato gli asini e di essersi vestito con i drappi di porpora che li ricoprivano facendo mostra dello stemma di Michelozzo mentre portava in giro le bestie per Milano e dicendo a tutti che il gentiluomo fiorentino gliene aveva fatto dono. Fu così che Michelozzo venne beffato: tutti i milanesi infatti lo credevano un folle poiché solo un pazzo avrebbe potuto fare un dono tanto costoso (tra asini e drappi spese più di cento fiorini) a un misero asinaio, facendogli per giunta indossare solennemente il suo stemma. Così la novella si chiude con l’ira di Michelozzo che prorompe in una battuta scurrile in cui muta il nome del suo beffatore trivializzandone l’umile mestiere: “Che diavolo ho io da fare con Merdolino da Crema che, secondo la lettera, dice che è asinaio?”

 

Anedotti e ragioni di opportunità

In margine alla lettura di questa simpatica novella possiamo appuntare alcuni rilievi. Il primo è di tipo storico: Bernabò Visconti (1323-1385) è protagonista di numerose novelle del Sacchetti, il quale ebbe modo anche di conoscerlo di persona. Di Bergamino da Crema invece non si conoscono altre attestazioni: può darsi che sia un personaggio realmente esistito ma potrebbe essere anche solo un frutto della fantasia di Sacchetti. Lo scrittore afferma nella premessa al Trecentonovelle di avere raccontato aneddoti veri limitandosi soltanto talvolta ad alterarne alcuni particolari per ragioni di opportunità. Considerando che Bernabò fu signore anche di Crema non è impossibile che avesse tra i suoi famigli un cremasco trasferitosi a Milano che forse addirittura Sacchetti ebbe modo di incontrare.

 

La venalità borghese e mercantile

Il nome Bergamino pare piuttosto diffuso nel Trecento e non necessariamente possiede la natura comica che oggi potremmo attribuirgli: nel Decameron si trovano due personaggi chiamati così; nel Trecentonovelle compare un Bergamino anche in un’altra novella (nov. LXVII). Infine si possono mettere in rilievo in questo racconto alcuni tra i temi tipici della narrativa sacchettiana: la venalità borghese e mercantile che dà un prezzo a tutto, la satira sulle differenze sociali, la beffa. Leggendo Sacchetti possiamo entrare, col sorriso sulle labbra, in uno spaccato di civiltà italiana che riguarda anche la nostra città: il nostro concittadino Merdolino da Crema, che fece carriera alla corte dei Visconti, si fece protagonista di una beffa che ci ricorda quanto gli italiani siano da sempre un popolo di burloni.

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