28-10-2013 ore 17:10 | Cultura - Musica
di Paolo Carelli

Crema. Intervista esclusiva a Roberto Vecchioni: "i giovani porteranno un nuovo umanesimo, scrivere canzoni è la mia vita"

A settant'anni, il professore ha spiazzato tutti con un nuovo album di inediti, dove ritornano i temi classici della sua produzione: l'amore, la società, la ricerca di sè. In attesa del concerto cremasco del prossimo 7 novembre al teatro San Domenico - i biglietti sono esauriti da tempo - ne abbiamo approfittato per una chiacchierata che inevitabilmente diventa non solo racconto di una carriera, ma pretesto per gettare uno sguardo disincantato sul presente, riflessione lucida sul valore profondo della cultura, della scrittura, della partecipazione.

Partiamo dalla fine. Io non appartengo più, il titolo del brano che dà il nome anche all'ultimo album, suona come una pietra definitiva su questo nostro tempo. E' una dichiarazione potente, quasi di rifiuto. Non sente però il rischio di un ripiegamento dentro i confini della nostalgia?
“E' una pietra su tante cose di questo tempo, però non è una resa o un abbandono. E' una scelta. In questa fase della mia vita, ma soprattutto in questa mia vita dentro questo tempo, a settant'anni, con tre nipotine, dopo aver lottato concretamente e non solo a parole, preferisco dedicare l'anima alle passioni classiche, alle parole che hanno cambiato l'uomo e non la cronaca, alla lentezza, alla disapprovazione nei confronti di tutto ciò che non è riflessione, analisi, cultura. Non dico che il passato è meglio del presente, assolutamente. Non dico che non appartengo ai valori profondi e reali della solidarietà, della condivisione, del perdono, però al tempo stesso non riesco ad appartenere alla democrazia dell'apparenza, all'individualismo venduto come globalità, alla virtualità nelle piccole cose di tutti i giorni. Ho criticato chi passa il suo tempo a scrivere sui social network che sta mangiando la pizza Margherita, non ho criticato internet e gli strumenti che permettono una maggiore diffusione dell'informazione. Sono felicemente e serenamente in attesa di un nuovo umanesimo. E credo che arriverà. Lo porteranno i giovani di oggi che sono meglio, molto meglio, di come vengono dipinti".

Eppure solo due anni e mezzo fa cantava questa maledetta notte dovrà pur finire. Sembra che quella notte, semmai sia finita, sia anche ritornata...è così?
“Quella notte era una notte italiana, infarcita di politica e non solo, e per certi aspetti, per certe conferme che sono arrivate, non è finita, ma nel periodo di 'Chiamami ancora amore', per una strana coincidenza, ha visto qualche raggio di luce, certo non per merito mio… Il mio non appartenere più non è invece legato ai fattini italiani, alla politica di questo o di quello, è un sentimento più ampio: se fosse filosofia parlerei di esistenzialismo".

Diversi artisti e cantautori della Sua generazione ormai sfornano soprattutto raccolte. Lei a 70 anni esce con un nuovo album di inediti. Dove e come si trova ancora, dopo tanti anni, l'ispirazione?
“Forse nel tempo che lascio passare da un disco d'inediti a un altro… Dopo 'Chiamami ancora amore' anch'io ho proposto delle raccolte, però avevano dei brani nuovi, che forse non sono stati neppure valorizzati dalle raccolte stesse. Infatti, ascoltando 'I colori del buio', si poteva intuire che era stato gettato il seme di 'Io non appartengo più'. Però, prima di pubblicare il cd, ho voluto avere 12 brani importanti, non un singolo e alcune canzoni di contorno. Credo che il livello di 'Io non appartengo più' sia quello che desideravo dalla prima all'ultima traccia: per non prendere in giro la gente che ancora acquista musica. Poi, ovvio, le canzoni possono piacere o non piacere, uno può ritrovarsi più in questa che in quella, ma quella non è roba mia, è la storia della gente con le mie canzoni. All'ispirazione non si comanda, però in realtà questo è un lavoro-progetto, è lo sviluppo di un concetto, doveva avere un inizio e una fine, da Esodo a 'Io non appartengo più'. Per certi aspetti ho voluto un album d'altri tempi, suonato molto live in studio anche per quanto riguarda la creazione stessa delle canzoni nata dalla collaborazione con Lucio Fabbri".



Quando vinse a Sanremo, nel ritirare il premio, tra i ringraziamenti vari Lei disse una frase che mi colpì molto. Vado a memoria: parlò della necessità per la musica italiana di seguire una direzione fatta di un mix tra canzone d'autore e canzone popolare. La pensa ancora così? Vede all'orizzonte qualche giovane artista che sta percorrendo quella strada?
“Spesso si confonde musica popolare e musica commerciale. Sono due concetti agli antipodi. 'Il cielo in una stanza' è popolare, perché è entrata nella storia delle persone, come le canzoni di Fabrizio De Andrè, per esempio, o Mina. Quindi popolare è in positivo, non in negativo. La musica commerciale è una produzione con una data di scadenza, volutamente: un mese, un'estate, arrivederci e grazie. La nostra musica d'autore ha una sua popolarità melodica che le ha consentito, soprattutto negli anni '60-'70, di diventare scuola: c'era molta ricerca e c'era molta disponibilità da parte delle case discografiche. Oggi la crisi economica ha cambiato l'industria della musica, non solo in Italia, e bisogna trovare altre forme di espressione e di coinvolgimento. Però lampi di qualità ce ne sono ancora. Penso alla scrittura di Giuliano Sangiorgi, a Caparezza".

Cosa pensa dei talent-show musicali?
“Ci sono e quindi non possiamo ignorarli. L'importante è lo spirito con il quale si partecipa: io ci sono stato, ad 'Amici', per insegnare ai ragazzi il valore della parola, la storia della musica d'autore italiana, perché Lucio Dalla ha scelto un aggettivo piuttosto che un altro, per dire loro che bisogna sapere che cosa si canta e non pensare di dover cantare per forza perché non ci sono altre possibilità per costruirsi una vita. I talent vanno bene se vengono considerati per quello che sono, cioè show, non una scelta di vita senza alternative".

Nella Sua produzione artistica c'è molta Milano. L'amore sconfinato per una città di cui, tuttavia, Lei già in Luci a San Siro denunciava l'anima corrotta e la deriva morale. Come vede e sente oggi la Sua Milano?
“Il sindaco Pisapia ci sta quantomeno provando, però a Milano come altrove serviranno tanti anni per rigenerare quello che è stato accartocciato. Sto parlando di anima della società, non di politica o di azioni. In Italia oggi se fai una cosa, qualunque essa sia, sicuramente c'è qualcuno alla quale non va bene: c'è una discussione infinita e inutile anche sulle cose più banali, per le quali servirebbe solo buon senso. Detto ciò, amo Milano per certi aspetti, per certi luoghi che ovviamente sono legati a ricordi, a persone, a episodi. Però amo tantissimo l'Italia in generale: in ogni luogo c'è qualcosa d'importante, di storico, anche nel mio più piccolo borgo sperduto. Questo non accade in tanti altri Paesi al Mondo, però non ce lo diciamo mai, facciamo tanti viaggi per andare a vedere tante cose… Mah…".

C'è un album o un brano della Sua carriera a cui si sente particolarmente legato e perché? Qual è, invece, la canzone che avrebbe voluto scrivere?
“Il legame con una canzone è anche un fatto temporale, di emozione di quel momento, però è chiaro che ci sono brani che hanno un valore più assoluto, come quelle che ho dedicato ai miei figli, come 'Figlia' o 'Le rose blu' o 'Due madri' nell'ultimo cd. Per quanto riguarda la canzone che avrei voluto scrivere, siccome Francesco Guccini mi ha sempre invidiato 'Luci a San Siro', nel senso che avrebbe voluto scriverla lui, io non posso che dirne una sua, 'Bisanzio' per esempio".

Per quanto ancora potrà e vorrà dire "la mia ragazza è il mio mestiere"?
"Per sempre. Perché è per mia moglie Daria, che è stata con me anche quando si perdeva, ogni giorno e in ogni cosa, e perché scrivere canzoni è la mia vita da piccolo arrangiatore e ottimizzatore di parole".
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