“Il Covid ha palesato l'importanza della relazione con gli assistiti”. Lo ha fatto educandoci al distanziamento, privandoci del contatto, della forza di un sorriso, della magia di un abbraccio. “Proprio per questo ci ha insegnato che il paziente va ascoltato e riposto al centro”. Baro Suku parla alla velocità della luce, al termine del suo tirocinio in pronto soccorso. Iscritto al terzo anno del corso di laurea in infermieristica presso la sezione cremasca dell'Università degli studi di Milano, in corsia semina parole e coltiva relazioni. “In pronto soccorso vediamo persone stare male e passare velocemente. Dobbiamo prenderci cura di loro, ma non abbiamo tempo per la relazione”. Tutto corre: ci sono urgenze da gestire e vite da salvare. “Forse per questo, anche lì, preferisco fare un passo indietro dal punto di vista dell'assistenza tecnica, per farne tre avanti sulla relazione. Spesso non ci ricordiamo che quando una persona viene in ospedale ha paura, vuole essere rassicurata da un volto amico. Ecco, il Covid ci ha privati anche di questo”.
La forza di ciascuno
Dalle divise si scorgono solo gli occhi: “è vero, sono lo specchio dell'anima, ma non bastano”. Non possono bastare. “Le persone malate di Covid ci vedono arrivare tutti vestiti di bianco o di azzurro”. Tutti uguali. “Ma non siamo identici. Ognuno ci mette del suo: c'è chi si scrive il nome sulla divisa, ad esempio. Io cerco di dire che ci sono, di far sentire accolti i malati, di prendermi cura di loro nel modo in cui vorrei essere accudito”. Fa una pausa, si calma e riprende: “l'ospedale è una struttura complessa”. Fatta di persone, relazioni, ostacoli da superare. “Insieme, ma con la forza e il contributo di ciascuno. Ho capito che il mio posto è accanto a chi soffre e lì cerco di stare ogni giorno, ricavandomi lo spazio necessario a generare benessere”. Per tutti.
Essere cura
La salute resta l'obiettivo. In ogni ambito. “Certo, al domicilio la situazione è completamente diversa”. Con la mente torna all'esperienza di tirocinio in ambito territoriale Covid. “A casa il tempo non è tiranno, è un alleato: ci sei tu e quella persona”. Nient'altro. “Quando quella persona guardandoti ti fa capire che si sente al sicuro, dai le spalle a quella porta sapendo di aver fatto qualcosa di importante”. Di aver fatto la differenza. “La cura passa anche da lì”. Non ci sono solo parametri da rilevare, ma anche sentimenti da coltivare. E custodire. “Porto con me tutti i giorni – racconta Gloria Inzoli, anche lei impegnata nel tirocinio in ambito domiciliare Covid – la forza dell'amore di due anziani che non hanno voluto farsi separare dal ricovero ospedaliero”. Per la paura di non ritrovarsi più. “Hanno preferito farsi curare al domicilio: in questo tempo sono stati l'una la cura per l'altro. Sono riusciti a superare una malattia che intimorisce solo dal nome perché l'hanno voluto. Perché erano pronti a farlo solo insieme”.
Legami unici
I ricordi delle giornate vissute in prima linea sono ancora vivi. “La presa in carico dei nuovi pazienti avveniva alla mattina per programmare la giornata”. Nomi stampati su uno schermo o su dei fogli, poco prima. Persone, spaventate e demoralizzate, poco dopo, oltre la soglia della porta di casa. “Alcuni giorni sono stati intensi, ma abbiamo cercato di stare accanto a ciascuno”. In modo diverso. “Ogni relazione è unica, oltre la distanza”. Oltre l'isolamento. “Al di là della tecnica, al domicilio era importante non far sentire sole le persone, spesso spaventate dalla quarantena. Il Covid mi ha spinto a dare il massimo nella relazione con gli assistiti sin da subito. Mi ha insegnato che dopo o domani potrebbe essere tardi”.