04-11-2021 ore 18:19 | Rubriche - Costume e società
di Ginevra Mantovani

Gino Tosetti, il fabbro artista che forgia le emozioni: 'la bellezza sta nella semplicità'

“Con il ferro si possono fare tante cose”. In officina a Chieve c'è ancora tutto il necessario: la fucina, il maglio e la dima per le lavorazioni. “Questo è il mio posto”. Gino Tosetti ha chiuso l'attività di famiglia sette anni fa: era un fabbro. “L'officina era aperta da 100 anni, ma i miei nipoti ora fanno altro nella vita e io non ho figli”. L'arte è ancora appesa al muro. “Piccole decorazioni che mi diletto a fare nel tempo libero. La passione è nata piano piano. Non è stato un colpo di fulmine: ho cominciato ad apprezzare il mestiere quando sono diventato autonomo in età da militare. Prima non amavo alzarmi presto la mattina, né andare a letto tardi la sera per seguire le orme di mio padre”. La foto di papà Giuseppe è appesa al muro. “Si chiamava Pino frér. Prima di lui c'era Ceco frér. In paese erano un riferimento. Soprattutto per gli agricoltori”. Erano gli anni in cui il mestiere delle mani si mischiava alla vita quotidiana e le tradizioni facevano a botte con le guerre. “Prima Ceco, poi Pino hanno dovuto lasciare l'attività per arruolarsi nelle due guerre”. L'officina è rimasta lì. Capace di attendere per continuare nel tempo.

 

Il lavoro vero

“Sarò onesto: non ho ereditato la passione per questo lavoro da mio padre. O, meglio, non subito. Quando ero più giovane lo vedevo intento a lavorare per necessità. Non si spingeva oltre ciò che era richiesto”. Ferrava i cavalli, riparava macchine agricole, assicurava lavoro ai dipendenti. “Faceva l'imprenditore con l'obiettivo di veder crescere stabilmente tre figli. Poi io sono partito per il militare: l'ho visto piangere e lì qualcosa è cambiato. Al mio ritorno non ho trovato il padre autoritario che avevo lasciato. In officina ho cominciato a sperimentare il lavoro vero, misto alla passione, all'arte di creare, di raccontare un'emozione. Prima di me c'era riuscito lo zio Lorenzo, che mi ha lasciato tutti i ferri del mestiere. Poca roba, che mi ha aiutato a capire che dietro ad un lavoro fatto con le mani c'era arte”. Non solo l'esigenza di portare a casa da mangiare. “Ho cominciato a lavorare autonomamente: aiutavo il papà, ma tra un cavallo da ferrare e una macchina agricola da sistemare, ci infilavo dei piccoli oggetti d'arredamento per gli amici. Facevo doni un po' a tutti, vedevo spuntare un sorriso ed ero contento. Iniziavo a capire di essere sulla strada giusta”.

 

Il mestiere delle mani

Il tempo passava e l'attività piano piano si espandeva. “Il nostro contributo era richiesto in diversi settori: dai cavalli da ferrare, passando per l'industria, fino all'arredamento”. Le foto raccontano di letti, tavolini, cancelli, misti ad arte sacra. “C'è stato un periodo in cui con il ferro si poteva fare davvero tutto. Arricchiva gli ambienti, adornava pareti, riempiva la tavola. Ora queste attività si stanno perdendo: c'è l'industria”. Non è più il tempo “della pazienza, della lentezza. Oggi tutto va veloce. Tutto è automatico”. Lo si vede anche in officina “per le lavorazioni di fucinatura ora c'è il maglio”. Prima, no. “Prima era tutto mestiere delle mani. Lo strumento principe per un fabbro per me resta l'incudine. Lì tutto prende forma, dopo essere nato nella testa”. Ogni opera è frutto della fantasia. “Prima di iniziare ogni lavoro disegnavo. Poi creavo, modellavo, modificavo”. Ogni pezzo era unico. “Per me non è mai stato un lavoro automatico, monotono. Ascoltavo le persone, cercavo di comprenderle e poi forgiavo il ferro”.

 

La forza della semplicità

“Era un modo per incontrare storie ed entrare in relazione. Mi ha insegnato che si può essere apprezzati anche per un semplice dono di ferro”. Uno di quelli che raccontano la storia di chi l'ha costruito. “Ho vissuto una vita in mezzo alla semplicità, alle cose e alle persone semplici. E agli affetti veri. L'attività mi ha permesso di incontrare tante realtà, ho cercato di reinterpretarle a modo mio, lavorando il ferro: questa è la mia arte”. Così, ad esempio, dopo aver conosciuto i musicisti di MagicaMusica ha donato loro un manufatto che li raccontasse. “Durante la pandemia, ho creato un'opera dopo aver ascoltato la canzone Rinascerò, dedicata alla città di Bergamo. Ancora, ho realizzato un dono per padre Gigi in occasione della sua liberazione riprendendo il rosone della Cattedrale, con una campana a festa e una colomba che vola in cielo”. Quella della colomba è una simbologia che torna spesso: “mi ricorda il senso di libertà”.

 

Creare per gli altri

Per un attimo, Gino, torna nel passato quando mette piede nella vecchia officina di Pino frér. “C'è ancora il suo tavolo da lavoro e i ferri per i vari animali. Di recente li ho mostrati anche ai piccoli bambini della scuola primaria che sono venuti a conoscere il mestiere del fabbro. Ormai rientra nei mestieri antichi, di cui va fatta memoria. Ho detto loro che con le parole non sono molto bravo, ma li ho accolti qui: con il ferro caldo pronto per essere forgiato, tanti dolci ed un dono creato da me”. Era il periodo di santa Lucia. “Ho spiegato loro che il giorno prima la santa era passata per far ferrare l'asinello”. Sorride, Gino. “Ho chiuso l'attività, ma continuo a creare per gli altri. Per regalare felicità”. Bastano le cose semplici: “la passione, la volontà, l'incudine, il martello e una dima per la lavorazione. Con il ferro si possono fare tante cose”.

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