17-11-2024 ore 14:15 | Cultura - Proiezioni
di Michele Gennuso

Il ragazzo dai pantaloni rosa. Un film da vedere e su cui riflettere insieme ai propri figli

Curioso che un film che racconta la morte, anzi il suicidio di un quindicenne, inizi con una scena in cui protagonista indiscussa è la vita. Partorire, mettere al mondo: il mistero che accompagna l’umanità da sempre. Da uomo faccio fatica già solo ad immaginarlo quel travaglio dove il dolore paradossalmente è l’elemento necessario per consentire alla vita di emergere, di venire fuori dal luogo sicuro, il ventre di quella madre che per sempre sarà visceralmente legata a quel piccolo essere. Il parto: il paradosso della forza che deriva da due vite che in quegli istanti sperimentano la forza e la fragilità contemporaneamente; due vite che in quei momenti scoprono la profonda necessità della relazione, dell’interazione, il disperato bisogno di separarsi pur sapendo che mai ci si separerà veramente.

 

Bullismo

Ed è da questa viscerale relazione tra madre e figlio che la storia si sviluppa, non è solo la storia di Andrea è anche la storia (se non soprattutto) della sua mamma. Andrea Spezzacatena muore, si suicida, il finale del film è noto, il rischio di banalizzare una storia di bullismo era dietro l’angolo, così come quello di alzare i toni della narrazione per sconvolgere lo spettatore; eppure, il registro stilistico che emerge è quello della normalità. Il quotidiano, quella routine che troppo spesso ci scivola addosso come un atto dovuto, come una circostanza inevitabile, ma la normalità, la quotidianità, rappresentano la nostra essenza.

 

L’abbondanza

Quel quotidiano che i nostri figli vivono a modo loro in cucina, in salotto, nel disordine della loro cameretta, nelle palestre, e a scuola dove iniziano a scoprire la loro identità. La normalità di sentirsi amati, perché “abbiamo tutti bisogno di sentirci amati”, di essere visti, riconosciuti, apprezzati, considerati. Ed è questa semplicità che disarma perché è una bella normalità: la lettura di un libro, una felpa indossata, una corsa sulla pista di atletica, le risate con gli amici, le litigate in famiglia, gli abbracci tra fratelli, un pomeriggio sulle giostre. E Andrea è abbondante, è extralarge nelle sue competenze: canta bene, studia con profitto, riesce bene anche nello sport e questi suoi ‘eccessi’ se da un lato potrebbero consentirgli di imporsi in maniera significativa nel contesto in cui vive rappresentano la miccia che accende nei suoi confronti una cattiveria che interroga per tutta la durate del film lo spettatore: perché? Perché? Perché?

 

L’assenza

E il male si insinua nella normalità, come un cancro, come un tumore, si accresce lentamente, non solo nell’anima di Andrea (che come tanti adolescenti sperimenta il vuoto interiore che non comprende) ma anche nei contesti che abita (la sua famiglia, la scuola), è una macchia che si dilata, è monossido di carbonio che penetra lentamente nelle coscienze di tutti coloro che gli stanno attorno; tutti storditi e disattenti, anche i carnefici perdono il controllo e si sviluppa una titanica assenza. È un film dove l’assenza diventa protagonista. Non ci sono gli adulti in questo film, tranne la madre di Andrea e in parte (ma solo in parte ahimè) il padre, oltre ad una nonna che comprende e intuisce il disagio del nipote ma rimane inascoltata.

 

Adolescente problematico

È un film che ferisce senza alcun dubbio perché lascia l’amarezza indigeribile di un “avremmo potuto e non abbiamo fatto”; il bullismo (il cyberbullismo) non si cura si previene, non dobbiamo sperare che non accada perché accade. Il post-it di “adolescente problematico” si stacca rapidamente dalle spalle di Andrea (e di tanti troppi nostri ragazzi) e non ne rimane nemmeno il ricordo e in quel periodo dove si iniziava l’utilizzo dei social senza nessun argine, Andrea viene travolto dalle parole di un web che gli scatena addosso schizzi digitali intrisi di odio, che gli macchiano l’anima, gli intossicano l’identità, gli inaridiscono il cuore. E non c’è nemmeno un tunnel da attraversare per magari intravedere una luce; c’è solo un abisso in cui sprofondare malgrado un desiderio inascoltato (forse non troppo urlato) di amore. Di questa afasia emotiva non penso che possiamo rendere colpevole Andrea o i tanti Andrea che frequentano le nostre giornate, non può né deve diventare una fortuna evitare le parole che “sono come vasi di fiori che cadono dai balconi. Se sei fortunato li schivi, ma se sei lento ti prendono in pieno e ti uccidono”. È un film da vedere e riflettere: insieme ai nostri figli senza alcun dubbio e mi sorprende ancora oggi il divieto (poi per fortuna rientrato) di proiezione in una scuola. Abbiamo bisogno di aquile non di struzzi.