15-09-2021 ore 20:40 | Cultura - Incontri
di Gloria Giavaldi

Le storie di Sara Manisera per osservare la realtà: 'nei campi vive la forza di resistere'

Quattro stagioni, quattro regioni, un anno. Per indossare le scarpe di chi vive nelle campagne, tra la fatica, gli ostacoli, le mani sporche, le suole consumate. La forza di sperare che domani sarà diverso. Meglio: il coraggio di provare a costruire un futuro migliore. “Dopo aver ascoltato storie per lungo tempo, ho cercato risposta ad alcune domande e sono giunta alla conclusione che una nuova economia rispettosa dei diritti dei braccianti e dell'ambiente è possibile”. Sara Manisera è una giornalista freelance. Ha scovato storie nei luoghi più lontani: Iraq, Siria, Libano, Tunisia, Bosnia, Kosovo, ma ieri sera, ospite all'Arci di San Bernardino per la rassegna Di venere e di marte, ha aperto il cassetto della memoria. “Quella che serve per lottare anche oggi per un mondo più giusto”. Ha raccontato il ricordo di sua nonna Teresa Vallone, bracciante emigrata nel secondo Dopoguerra in Germania. “La sua storia – scrive nel libro Racconti di schiavitù non è né unica, né speciale. Rappresenta, però, un'esperienza universale, perché racchiude la storia di migliaia di uomini e di donne”. Di chi, in piena estate in Puglia, si dedica alla raccolta del pomodoro all'ombra del caporalato. Di chi mantiene ordine tra le belle campagne piemontesi. Lì dove tutto in apparenza è perfetto e i diritti vengono calpestati in silenzio. Di chi passa l'inverno a Rosarno per raccogliere. Di chi in Sicilia custodisce l'eredità “di una gloriosa lotta dei braccianti. Oggi sepolta dalla memoria”.

 

L'eredità della memoria

La memoria è il punto di partenza. Ma anche quello di arrivo. “Chiude un cerchio”. Sono passati anni, ma il fil rouge è il medesimo: “lo sfruttamento delle persone e dell'ambiente. Ecco perché dovremmo ripartire da ieri. Dovremmo esercitare la capacità di memoria e rispondere ad alcune domande”. Una di queste è stampata sulla copertina del libro di Sara Manisera. “Quali sono le storie delle mani che raccolgono la frutta e la verdura in Italia?”. Sono volti. Di uomini e donne “spesso immigrati”, occhi che si raccontano, piedi che corrono e mani che si fermano pochi attimi all'ombra di un alloggio condiviso. “Oggi abbiamo un'eredità: è quella che ci hanno consegnato i contadini di Portella della Ginestra. È una lotta da continuare per i diritti di tutti”. Passa sicuramente “dall'impegno di associazioni e cooperative che propongono un modello di lavoro agricolo rispettoso e dall'etichetta narrante, un presidio importante per i diritti dei lavoratori”. Oggi non è obbligatoria, ma mette nero su bianco i costi sostenuti nei vari passaggi del prodotto. “Diffidate da ciò che costa poco”. Cela, nasconde, mette a tacere le storie di chi viene calpestato. Anche oggi. E anche al nord: “non esiste una sola forma di caporalato, quella più eclatante. Esistono anche forme sottili”. Silenziose ed invisibili.

 

'Reporter di pace'

Le pagine del libro di Sara, mettono nero su bianco un lavoro di tesi realizzato con il professor Nando Dalla Chiesa. “Mi ha spronata lui ad iniziare questo viaggio pieno di storie. In un mondo come quello del giornalismo freelance è importante avere buoni esempi, persone capaci di dare sempre nuovi stimoli. Io sono stata fortunata”. Una laurea in sociologia della criminalità organizzata, due master, vari premi giornalistici all'attivo, Sara è “una reporter di pace” in zone di guerra. “Mi piace l'idea di poter offrire una narrazione diversa di questi posti. L'Iraq non è solo un posto di guerra, ci sono anche giovani ambientalisti in prima linea per il diritto all'acqua o ragazzi che ascoltano la techno e fanno le cose da giovani”.Il giornalismo deve scovarle “per restituire una complessità e consegnare alle persone gli strumenti per comprendere la realtà”. Non è protagonismo, “egocentrismo”, piuttosto servizio: “raccontiamo le storie degli altri”. In uno spazio ad oggi troppo risicato.

 

Investire sui talenti

“La responsabilità è di chi decide, in un panorama condizionato da logiche partitiche”. E precario. “Essere freelance oggi vuol dire, senza dubbio, essere precari, lavorare con tanti media, fare fronte ad una mole di lavoro notevole per un compenso che consente a malapena di sopravvivere. Basti pensare che ad oggi il 70 per cento dei giornalisti freelance guadagna meno di 15 mila euro lordi annui. È un lavoro che fai, tra mille difficoltà e mille spese da sostenere, solo se ci credi davvero. La nostra è una generazione piena di passione, ma è anche necessario tornare ad investire su un giornalismo di qualità”. Il cambiamento deve partire dai lettori: “ sono prima di tutto loro a doverlo richiedere”. Tiene il libro stretto tra le mani. Sara ci crede. “E' la passione”.

2286