La prendo molto larga per questa recensione, ma tutto avrà un senso ve lo prometto. Il francesismo nel titolo è un omaggio all’ultima bellissima sfilata di Alessandro Michele di qualche giorno fa e al consueto manifesto filosofico che da un decennio lo accompagna. La vertigine in cui possiamo perderci, i mondi interconnessi e accostati, gli infiniti rimandi, “il viaggio nella vertigine di una molteplicità incompiuta”. Questa vertigine nasce dagli archivi, che come precisa Michele Ciavarella nel suo Game Changers è un elemento sempre più al centro dell’attenzione nella moda. La necessità di mandare avanti un marchio in assenza del proprio fondatore, portando il gusto e la sensibilità di un nuovo direttore artistico affinché possa amalgamarsi nel dna delle maison.
I primi anni
E qua arriviamo al nostro A complete unknown, il film di Mangold sui primi anni della carriera di Bob Dylan. Non ho mezzi termini, il film non mi è piaciuto. La storia si sviluppa negli anni che vanno dal 1961 al 1965 e dovrebbe analizzare gli anni cruciali nella crescita artistica del menestrello di Duluth. Gli stessi anni che sono già stati in parte trattati in opere come No direction home di Scorsese , in Io non sono qui di Haynes, entrambi di metà anni 2000, oltre che in Don’t look back di Pennebaker. Ciascuno di questi film è una pietra miliare nel proprio genere. Scorsese aveva setacciato gli archivi per creare un film documentario sontuoso di quasi 5 ore, Pennebaker aveva filmato direttamente Dylan in tournee creando il primo vero reportage rock ed Haynes invece aveva compreso che il modo migliore per fare un film di invenzione su Dylan è quello di trattarlo come un idea, decostruendone il personaggio. L’idea di Dylan è più importante della sua persona. È questo l’elemento chiave del dna dylaniano che non dovrebbe mai essere scordato in una nuova opera di codifica.
Licenze poetiche
Mangold invece segue una strada che personalmente faccio fatica a comprendere. Non dirige un film totalmente “storico”, prendendosi alcune licenze che potrebbero anche essere interessanti se restituissero un messaggio chiaro, ma neanche di “concetto”, in quanto i momenti chiave della carriera di Dylan sono trattati in maniera a mio avviso superficiale. Su questo aspetto sicuramente non aiuta la sceneggiatura, confusionaria e colpevole di saltare i veri punti di interesse, quale il passaggio dal Dylan hobo al Dylan beatnik. La stessa sceneggiatura che ha trasformato la gestazione di alcune delle opere più importanti del secondo 900 in un cosplay in chiave rock. Di questo film salvo gli intermezzi musicali, in cui Chalamet risulta davvero credibile; se non altro consegnerà queste canzoni a una nuova generazione di ascoltatori. In ogni caso il film sta incassando davvero bene, quindi felice che non tutti la pensino come me.
Cliché
Ritengo che Mangold abbia subito lo “zodiaco di fantasmi” che si annida negli archivi di personaggio importante come Dylan, scegliendo una serie di cliché e non riuscendo a codificarne una nuova versione che possa rendere giustizia alla complessità della sorgente originaria, che si annida in acque più profonde. Lato mio, il miglior Dylan visto al cinema è stato interpretato da una donna. Cate Blanchett in Io non sono qui rimane la spada da estrarre dalla roccia. Vedremo per quanto tempo ancora.