02-02-2024 ore 20:35 | Cultura - Incontri
di Paolo Emilio Solzi

Il professor Vittorio Dornetti racconta la storia della Colonna Infame di Alessandro Manzoni

Nell’ambito della rassegna I Martedì col Professore, Vittorio Dornetti è tornato a Crema per “sciacquare manzonianamente i panni in Serio” e tenere la conferenza Manzoni e la Colonna Infame alla Libreria Mondadori. Quasi una lectio magistralis di diritto penale sostanziale e processuale, più che di letteratura, ma non per questo meno interessante.

 

Il coraggio uno non se lo può dare

La Storia della Colonna Infame è un saggio di Alessandro Manzoni (“Don Lisander”, per i milanesi), definito dalla critica letteraria un pamphlet, un’arringa difensiva, una cronaca giudiziaria… Manzoni l’aveva concepito come una delle tante digressioni che interrompono l’azione nei Promessi Sposi. Mai soddisfatto dei suoi lavori, che riscriveva, modificava e limava fino allo sfinimento (cosa molto comune fra gli scrittori), Don Lisander si convinse che i lettori non avrebbero digerito un excursus così lungo. Inoltre non era riuscito a completarlo in tempo utile per la prima edizione del Fermo e Lucia del 1827. Infine, secondo Carlo Dionisotti, in quegli anni l’eco dei processi ai carbonari risuonava ancora troppo forte. Manzoni non aveva esattamente un “cuor di leone” e non voleva che le critiche alle autorità spagnole seicentesche fossero intese come accuse ai governatori austriaci a lui contemporanei. Don Abbondio sosteneva che “il coraggio uno non se lo può dare”. Perciò Manzoni rimandò la pubblicazione dell’opera a tempi migliori. Nell’edizione dei Promessi Sposi del 1840, decise di spostare in appendice la Storia della Colonna Infame, conferendole vita autonoma.

 

Dagli all’untore!

La Storia della Colonna Infame si svolge durante l’epidemia di peste che colpì Milano nel 1630 (lo stesso periodo in cui è ambientato I Promessi Sposi). Narra del processo – pieno di errori e “supplizi atrocissimi” – ad alcuni presunti untori, “accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili” (intrugli venefici). Manzoni mostra come, nel clima di paranoia che regnava in città, il popolino si facesse suggestionare dalle superstizioni e le istituzioni fossero in cerca di capri espiatori da dare in pasto alla folla inferocita.

 

Uno de quelli che andauano ungendo le muraglie

Le accuse partirono da Caterina Rosa, “una donnicciola” (così chiamata da Manzoni in senso dispregiativo) che, “trovandosi […] a una finestra d’un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo” che maneggiava una carta. Caterina deporrà che lo sconosciuto si avvicinò alle case, strusciandovi una mano. Lei pensò che fosse “uno de quelli che […] andauano ungendo le muraglie” con la peste. Un’altra Perpetua (la cameriera di Don Abbondio, che non si faceva mai i fatti suoi) osservò l’uomo, che sembrava scrivere su una carta e poi fregare la mano sopra i muri. Non ci vuole l’intuito di Sherlock Holmes per capire, come suggerisce Manzoni, che “fu probabilmente per pulirsi le dita macchiate d’inchiostro”. Quanto “all’andar rasente il muro, se a una cosa simile ci fosse bisogno di un perché, era perché pioveva”, come depose la stessa Caterina. Il “racconto delle donne fu subito arricchito” di nuovi particolari, grazie al passaparola dei vicini. Anche Giangiacomo Mora, barbiere che abitava all’angolo con il corso di porta Ticinese, credeva che fossero stati unti i muri della sua casa-bottega. Presto venne riferito al Senato di Milano che “hieri mattina furono onte con ontioni mortifere le mura et porte” di via della Vetra de’ Cittadini. E con simili “parole, già piene d’una deplorabile certezza, e passate senza correzione dalla bocca del popolo in quella de’ magistrati”, si aprì la caccia alle streghe.

 

A me l’ha dato lui l’unguento, il barbiero

Il presunto untore, Guglielmo Piazza, era in realtà un commissario della Sanità. La sua abitazione venne frugata “in omnibus arcis, capsis, scriniis, cancellis, sublectis”. Piazza fu torturato, confessò e chiamò in correità Mora: “a me l’ha dato lui l’unguento, il barbiero”, che a sua volta fu accusato di essere un diffusore di peste. Manzoni ricorda che i barbieri, “a quel tempo, esercitavan la bassa chirurgia; e di lì a fare anche un po’ il medico, e un po’ lo speziale, non c’era che un passo”. In casa di Mora trovarono del ranno (miscuglio di cenere e acqua bollente usato per lavare i panni) e “duo vasa stercore humano plena” che parvero sospetti. La catena di confessioni estorte con la tortura e chiamate in correità coinvolse due arrotini, Girolamo e Gaspare Migliavacca (padre e figlio), e si fermò solo quando arrivò a Giovanni Padilla, figlio del castellano di Milano, un militare spagnolo di alto rango.

 

Una colonna che si chiamasse infame

Secondo Manzoni, Piazza pensò “che, se gli riusciva di tirare in quella rete, così chiusa alla fuga, così larga all’entrata, un pesce grosso; questo per uscirne, ci farebbe un tal rotto, che ne potrebbero scappar fuori anche i piccoli”. Infatti Padilla, racconta Dornetti, si presentò dai giudici con un pool di avvocati di grido, che smontarono le accuse di veneficio nei confronti del loro cliente. Ma Piazza, Mora, i Migliavacca e altri furono condannati al supplizio della ruota e giustiziati pubblicamente per calmare il popolo in rivolta. La casa-barbieria di Mora fu demolita (una tardiva damnatio memoriae o una prematura cancel culture). I giudici sentenziarono che “sullo spazio di quella [fosse] eretta una colonna che si chiamasse infame”, con un’iscrizione in latino seicentesco che tramandasse ai posteri i nomi degli accusati e le pene inflitte.

 

I poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni

La Colonna Infame fu abbattuta nel 1778, durante l’amministrazione di Maria Teresa d’Austria, quando nessuno credeva più alla colpevolezza degli accusati. Ormai era diventata una testimonianza d’infamia non dei presunti untori, ma dei giudici che avevano commesso la clamorosa ingiustizia. Nel 1803 “fu sullo spazio rifabbricata una casa; e in quell’occasione, fu anche demolito il cavalcavia, di dove Caterina Rosa […] intonò il grido della carneficina […]. Allo sbocco di via della Vetra sul corso di porta Ticinese, la casa che fa cantonata, a sinistra di chi guarda dal corso medesimo, occupa lo spazio dov’era quella del povero Mora”. La lapide della Colonna Infame è ancora conservata al Castello Sforzesco di Milano. Oggi il corso di porta Ticinese è popolato da bohémien, metallari e “radical chic con l’attico a New York”, ma nel XVII secolo, spiega Dornetti, la zona era malfamata, frequentata dalla piccola criminalità. Si sa: “i poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni”, mentre l’unico nobile si salvò. Come ripeteva il Marchese del Grillo ai comuni mortali: “Me dispiace, regà, ma io so’ io, e voi…” Via della Vetra de’ Cittadini adesso si chiama via Giangiacomo Mora. All’angolo con il corso di porta Ticinese vediamo una palazzina, su cui nel 2005 è stata affissa una targa che recita: “Qui sorgeva un tempo la casa di Giangiacomo Mora, ingiustamente torturato e condannato a morte come untore durante la pestilenza del 1630”.

 

Il diritto è umano, la giustizia è divina

Manzoni trasse molte informazioni da un’opera di Giuseppe Ripamonti, che aveva ispirato anche Osservazioni sulla Tortura di Pietro Verri, altra fonte citata da Don Lisander. Verri era illuminista e riteneva che il processo si fosse svolto in maniera inaccettabile. Egli deplorava la tortura, come Cesare Beccaria in Dei Delitti e delle Pene. Gli illuministi, insofferenti verso il governo austriaco, ammiravano la più tollerante Inghilterra e auspicavano una riforma del codice penale. Dornetti precisa che nel 1827 Manzoni era più vicino alle posizioni di Verri, nel 1840 ne prese parzialmente le distanze. Benedetto Croce e Fausto Nicolini criticarono Don Lisander per aver sottovalutato il fatto che i giudici dovessero attenersi alle norme della loro epoca e il clima di delirio collettivo (insomma, “il buonsenso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”). Va detto però che Manzoni non scrive da storico, ma da moralista e fervente cattolico. Per lui il diritto è umano, la giustizia è divina: le due cose non sempre coincidono. La Storia della Colonna Infame è stata difesa dai laici di sinistra, paragonata a Contro l’Intolleranza di Voltaire. Leonardo Sciascia propose un parallelo fra il processo agli untori e le leggi speciali contro il terrorismo. Natalia Ginzburg definì Manzoni “un poveraccio”. Nella Fabbrica della Peste, Franco Cordero accusa Don Lisander di aver commesso errori nella ricostruzione degli eventi. Concludendo, il professor Dornetti ha ringraziato i temerari che hanno sfidato la colonnina infame del termometro per venire ad ascoltarlo in una gelida serata dei Giorni della Merla.

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