29-01-2015 ore 21:06 | Rubriche - Musica
di Rebecca Ronchi

Crema, Steel City. Il mini tour nel Regno Unito, il chitarrista Alessandro Cannatelli: "è stata un'esperienza fantastica "

Gli Steel City alla corte di sua Maestà britannica. Il chitarrista Alessandro Cannatelli, reduce dal minitour di sei date nei pub nel Regno Unito dello scorso agosto il complesso progressive metal cremasco, racconta l’esperienza oltremanica, offrendo ampi spunti di riflessioni sulla scena musicale italiana. Il gruppo, nato nel 2010, è formato, oltre che da Cannatelli da Samuele Cremonesi (chitarra), Andrea Brambilla (basso) e Francesco Valente (batteria). Al termine del tour i cantante Fabio Riccioè rimasto in Inghilterra, preferendo affrontare nuove avventure artistiche. Attualmente la band è priva di un cantante.

 

Una band cremasca nel regno di sua Maestà. Un sogno che si realizza?

“Beh, ovviamente! Poter esportare in più posti possibili la propria musica credo sia l’ambizione di chiunque abbia questa passione che in certi casi diventa un vero e proprio lavoro. Personalmente sono partito carico di entusiasmo ma anche con qualche timore, era il primo vero e proprio mini tour all’estero per tutti noi, oltretutto nel paese dove si parla la lingua in cui cantiamo e da cui vengono molti dei musicisti che per me sono stati fonte primaria d’ispirazione. Insomma, sentivo sulle spalle un certo peso, ma dopo le prime due date tutti i miei dubbi sono stati spazzati via”.

 

In quali città avete suonato? Con chi? Che tipo di situazione: pub, bar, grandi locali? A che ora avete suonato e quanto?

“Il tour comprendeva sei date in località varie del Regno Unito: Boston, Northampton, Wakefield, Salisbury, Llanelli e Stoke-on-Trent. Insieme a noi c’era una band di melodic skate-core di Ferrara, i Fankaz. Quattro ragazzi con i quali abbiamo passato delle bellissime serate e diviso il palco tutte le sere. Oltre al fatto che sono degli ottimi musicisti, quindi invito tutti i lettori eventualmente interessati a cercare i loro video su Youtube e magari a supportare un po’ la scena nazionale. I locali in cui abbiamo suonato erano pub e live clubs medio/piccoli, dove però il pubblico non mancava, a parte un paio di sere. Gli inglesi hanno orari decisamente diversi dai nostri, in genere è tutto anticipato rispetto all’Italia. Le nostre esibizioni mediamente duravano dai 30 ai 40 minuti e di norma si iniziava verso le 20.30 e non oltre le 21, anche perché entro mezzanotte i locali chiudono e poi non c’è davvero più in giro nessuno per le città”.

Gli Steel City durante il tour nel Regno Unito

Quale è stato il rapporto con tecnici, fonici, organizzatori, promotori. Ma soprattutto col pubblico?

“Se con l’agenzia che ha organizzato il tutto abbiamo avuto solo contatti via e-mail, per quanto riguarda tecnici e fonici ho sicuramente qualcosa da dire in più. In ogni locale c’era almeno un fonico, se non due o tre che lavoravano insieme. Nella data di Salisbury c’era anche un bravissimo tecnico delle luci, troppo bello vederlo al lavoro: credo sia quello che ha sudato più di tutti quella sera. In generale comunque abbiamo avuto a che fare con gente competente e disponibile. Il pubblico inglese: innanzitutto devo dire che in tutte le date abbiamo avuto ottimi riscontri, specialmente la seconda sera a Northampton, dove insieme a noi e i Fankaz c’erano due band locali, una delle quali piuttosto attiva in patria, gli Skam. La gente è parsa mediamente più interessata alla musica originale piuttosto che alle cover bands, ed alla fine di ogni concerto c’era sempre qualcuno che veniva a comprare il nostro cd scambiando anche una chiacchierata con noi. Se in un primo momento gli inglesi sembravano quasi guardarci con sospetto, alla fine della serata si mostravano cordiali e disponibili. Se poi sei in grado di sostenere una buona conversazione nella loro lingua allora è fatta”.

 

Siae, Enpals, guadagni?

“Comincio subito a svelarti un segreto: se i locali italiani pagano poco, quelli inglesi ancora meno. Gli unici guadagni che abbiamo avuto sono derivati dalla vendita di cd e magliette, anche se a dirla tutta sono stati reinvestiti in benzina, vitto e alloggi. Per essere stati dei perfetti sconosciuti che si recavano nel Regno Unito per la prima volta ci riteniamo soddisfatti, tre dei sei locali ci rivorrebbero di nuovo e abbiamo avuto anche delle offerte da altri proprietari di club che hanno assistito per caso ai nostri concerti. Quanto a Siae ed Enpals non saprei, in Inghilterra non ci sono e comunque hanno sicuramente dei meccanismi diversi dai nostri”.

 

In generale che differenze avete riscontrato con l’Italia?

“Come ho detto prima, la grossa differenza sta nel fatto che il pubblico inglese è mediamente più recettivo nei riguardi delle bands che propongono la loro musica. E questa da sola è una bella differenza. Purtroppo da noi, un po’ per cultura, un po’ per la mentalità dell’italiano medio che l’erba del vicino è sempre più verde e anche per l’errato atteggiamento da divi di certa gente, la vera scena nazionale fatica ad emergere. Ed è un vero peccato. Abbiamo qui nel nostro paese musicisti che nulla hanno da invidiare a pluriblasonate realtà straniere. Come mai negli anni ’70 c’era gente come PFM, Banco del Mutuo Soccorso, New Trolls e molto altro ancora di cui all’estero si ricordano ed ora a parte i soliti nomi del pop nulla o quasi che rappresenti certi generi come rock, metal, punk? Eppure le realtà non mancano. Ci sarebbe da riflettere parecchio su questo argomento, anche perché, oltre all’aspetto artistico, la musica può diventare una vera e propria industria che crea lavoro e indotto. Gli Stati Uniti insegnano da questo punto di vista”.

 

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